La pelle e le frontiere dell'afro-italiano
Barole Abdu
di Daniele Barbieri
Hamid
Barole Abdu
Seppellite la mia pelle in Africa
Come
già accaduto ad altri scrittori o scrittrici migranti [in un suo racconto il
siriano Yousef Wakkas si definiva "Io marokkino con due kappa"] anche
Hamid Barole Abdu si identifica d'istinto con altre e altri che attraversano le
frontiere ma con storie e contesti ben diversi. Empatia significativa visto che
il suo passaporto lo inquadra come cittadino italiano. Quel che sussurrano le
anagrafi conta però poco [viene attribuita al gerarca nazista Goering la frase
chiarificante "chi è ebreo lo decido io"] rispetto a quello che
"urlano" i fantasmi della mente e i megafoni del pregiudizio: capita
spesso infatti a Barole Abdu di ascoltare l'inverosimile richiesta del
"permesso di soggiorno" da zelanti tutori dell'ordine italico che
pure hanno già in mano il suo documento. Sul passaporto si legge italiano ma la
pelle di Barole parla d'Africa ai sospettosi agenti, funzionari, burocrati che
lo controllano spesso, certo per uno sberleffo della statistica perché gli
italiani, si sa, non possono essere razzisti.
Visto
che pelli e persone vanno per strade diverse, poco importa di chi Barole Abdu -
eritreo per origine - stia parlando quando scrive "Seppellite la mia pelle
in Africa" che chiude la prima parte, quella poetica, dell'omonimo libro.
Nera, gialla, olivastra, marrone; il colore conta perché è l'epidermide dei
poveri. Questi versi per esempio rimandano alla fatica, ai mille mestieri di
una donna che lascia il suo Paese per necessità. "Venni in Italia
minorenne / lavorai come serva per trent'anni" sono i versi iniziali e
poi: "feci nascere bambini / da mamma e badante […] così aumentò il numero
/ di persone da servire / senza pausa ferie e riposo". Adesso che "la
cataratta ha indebolito i miei occhi […] inabile al lavoro […] vedo il mio
destino sospeso nel burrone". E dunque "prima che mi abbandoni l voce
/ vi affido il mio ultimo testamento: / "Seppellite la mia pelle in
Africa"". Importa che sia la madre del poeta o una perfetta
sconosciuta? Conta qualcosa il nome o l'origine della donna che tiene in
braccio una neonata mentre è in fila all'ufficio immigrazione della questura
["La favola della bambina"] la notte che la temperatura scende sotto
lo zero? Barole Abdu è tutti quelli come lui, schiavi e sfruttati di ieri e
d'oggi: le cinque righe di "Quanto costa un negro?", la poesia
d'apertura, sono tanto più scioccanti quando un asterisco a fondo pagina ci
informa [la fonte è lo storico Basil Davidson, "L'Africa e il commercio
degli schiavi"] che appunto quello era il prezzo "giusto".
Senza
contare gli scritti saggistici o storici, "Seppellite la mia pelle in
Africa" [Artestampa, 224 pagine, 12 euro] è il terzo libro di Barole Abdu.
Piccoli editori; finora Barole Abdu non ha avuto l'attenzione che i suoi
scritti meritano. Dopo "Akhria, lo sradicato poema per fame" del '96
[Libreria del teatro] arriva "Sogni e incubi di un clandestino" del
2001 [Aiet, con una bella prefazione di Alain Goussot].
Nella prefazione di "Akhria"l'autore parla di
identità perdute e ritrovate: "Islam: culla dei miei valori, universo di
immagini. Eritrea: la mia cultura da salvare. Africa: terra dei miei avi,
avvinghiata tra passato e presente. Musulmano, eritreo, africano: gli amuleti
della mia identità". Un diverso, uno sradicato che fa i conti con i
secondi vent'anni - "lontano dalla mia terra, dalla mia gente" -
della sua vita. Invitano alla modestia le sue parole conclusive: "Chi
leggerà questo libro alla ricerca del nuovo intellettuale africano rimarrà
alquanto deluso […] e i miei scritti sono troppo prosaici per essere definiti
poesia. Sto solo cercando, in questo mondo di bianchi, un posto da Uomo".
Ma ha torto Barole Abdu a sottovalutare la potenza della sua scrittura: molte
sue parole lasciano il segno. Tant'è che quei testi furono premiati e hanno
ispirato due spettacoli teatrali.
Una
forza che cresce in "Sogni e incubi di un clandestino", il suo
secondo libro. Carico di rabbia. "Venite, venite giovani dalle Radici del
Mondo / I vostri coetanei europei hanno lasciato / per voi / stupefacenti
lavori, anche se umili e pesanti / irrinunciabili cottimi / seppure pericolosi
e malsani" ironizza in una delle prime poesie, "Viaggio nel Paese
delle meraviglie" e prosegue: "Venite capri espiatori generalizzati
[…] Venite a riempire i casolari abbandonati / case di periferia senza luce e
senza cesso / una famiglia di topi vi darà il benvenuto / gli scarafaggi vi
balleranno la tarantella / la pattuglia di Polizia vi farà spesso
compagnia". Ce n'è anche per esperti e solidali pagati a peso d'oro:
"Venite, venite giovani dalle Radici del Mondo / il gatto e la volpe vi
faranno la festa […] Su di voi verranno effettuati studi, ricerche e tesi di
laurea / grazie alla vostra presenza arriveranno finanziamenti che andranno a
nutrire gli speculatori sociali / produttori di uomini inutili e falliti".
Sarcasmo che torna fin dal titolo nel lungo ritratto di "Alì
l'integrato". Versi secchi, crudeli e banali come i buoni-pasto, la gastrite
e il Valium; per finir così: "Alì è apparentemente integrato / Ma un pezzo
di legno / può stare in acqua cent'anni / non diventerà mai un
coccodrillo". Nell'appendice [una lunga intervista di Enza Molinari] si
intrecciano ragioni di ottimismo e la denuncia del "vero razzismo
strisciante da parte delle istituzioni"; qui Barole Abdu chiarisce anche
il suo orizzonte cultural-politico citando una coppia di europei atipici,
Ernesto Balducci e Jean Ziegler, assieme a due ribelli - Aimè Cèsaire e Franz
Fanon - che africani non erano per passaporto ma lo divennero per pelle e
sentimenti.
Cinque
anni dopo arriva "Seppellite la mia pelle in Africa". Nella quarta di
copertina il pizzo bianco dà un'aria più saggia a Barole Abdu, il quale nella
nota iniziale parla, con grande profondità, del "bisogno di riconciliarmi
con tutto e con tutti". Eppure sono vuoti, lacrime, tragici approdi a
Lampedusa, "cani randagi", una valigia nella tomba "di un uomo
venuto da lontano" che non ha potuto sposare "la ragazza del mio
paese", silenzi, "città senza anima", attese che tornano anche
in queste poesie. Nelle prose c'è spazio per piccole speranze [in "Cronaca
di una espulsione annunciata" un improbabile giudice comprensivo], per la
tragedia di "Saviceveca la badante" ma prevale l'ironia, lo
sberleffo. Anzi in tre racconti Barole Abdu tenta - con risultati diseguali dal
punto di vista letterario - di travestirsi da sardonico consigliere per chi
cerca casa, per chi fa i conti con la denuncia dei redditi e per chi, una volta
almeno, non vorrebbe farsi scambiare con un venditore di accendini. Non mancano
[anzi "rullano" direbbe il suo autore] le poesie d'amore e quelle
politiche, come "Preghiera di un apolide", urlo contro la dittatura
in Eritrea. Un'ultima notazione è per "Il raduno dei cani randagi"
dove solo all'ultima riga è esplicito il riferimento a Sassuolo, una vicenda
che la maggior parte dei giornalisti racconta a rovescia: ed è naturale per
l'artista e per l'uomo trasformarsi in sfrattato, in "marokkino con due
kappa", in cane randagio.
Come nel primo dei suoi libri, Abdu Barole ha voluto sia i
testi italiani che inglesi [anzi in "Akhria" due poesie erano anche
in eritreo] e fa piacere notare che un piccolo collettivo lo ha aiutato
nell'impresa: non per caso alcune di queste persone sono del gruppo
"Traduttori e traduttrici per la pace" o a loro volta [come Pina
Piccolo] risultano artisti impegnati contro la guerra e chi la canta.
Potrebbe capitare a chi maneggerà il libro con troppa fretta
[o a chi si getterà subito nei versi e nei racconti saltando le prime e le
ultime pagine] di perdersi quattro informazioni importanti e inusuali. La
prima, nel risvolto di copertina, è l'albero genealogico dell'autore. La
seconda è la mail - hamid_baroleabdu@libero.it - con esplicito invito
a continuare il dialogo. Terza piccola notizia è una simpatica [dell'autore o
dell'editore?] nota di stampa: "Questa parte di albero, dopo aver subito
un severo controllo, è stata dichiarata "non contaminata da
radiazioni" ed è divenuta quindi libro […] nell'agosto 2006". La
quarta informazione apre il volume: "Il ricavato della vendita sarà
devoluto ai ragazzi eritrei nei campi profughi in Sudan" si legge e Barole
Abdu ricorda che è stato lì - "i miei occhi hanno visto quello che la mia
coscienza doveva vedere" - come testimone, "grazie ai contributi del
Coordinamento dei democratici eritrei in Italia". Al ritorno di quel suo
drammatico viaggio Hamid Barole Abdu ha tentato di farsi ascoltare, di
raccontare… ma pochi vogliono sapere cosa accade davvero nel "cuore di
tenebra" del mondo. Quel reportage e altri suoi scritti sono nel sito www.hamidbarole.too.it
dove l'autore ricorda il suggerimento di Cèsaire e ci invita "a non
incrociare le braccia nell'atteggiamento sterile dello spettatore […] perché un
uomo che grida e urla non è un orso che balla".
11 genniao 2007