Hamid
inizia a parlare come Daniele o qualcuno che gli assomiglia: romano, un
po’ nazionalista, non cattivo ma razzista senza saperlo e disturbato
nel suo quieto vivere dall’incontro con la diversità. Daniele si
identifica
con un immigrato fiero della propria identità, pieno di dubbi e
ogni tanto sbruffone. Le battute si alternano a discorsi seri: sarà
pericoloso ballare per strada, è giusto grattare la scapola di Mandela
[quella di Naomi Campbell è un’altra faccenda… a quale
maschietto non piacerebbe?], esiste un colore sbagliato per la pelle? Il
falso Hamid e il falso Daniele cercano di capire cosa diavolo siano le
scimmie verdi e provano a inventare un linguaggio per discutere su
razzismo, sicurezza, paura dell’altro, diffidenza. Prima
di «scambiarsi i panni» a Modena, il 27 maggio e poi nei giorni
successivi con altre performance in Sicilia e in Lombardia, Hamid Barole
Abdu e Daniele Barbieri riflettono sulle chiavi di lettura di questa
performance. Ne
«Le scimmie verdi» un
italiano e un immigrato si scambiano gli abiti, materiali e simbolici.
Cos’è l’identità per voi e qual è il legame con la memoria
storica? «L’identità
di un individuo, in una prima fase di vita, può essere etnica, in
un secondo momento diventa culturale ed esperienziale in base agli
strumenti conoscitivi che vengono acquisiti; la consapevolezza
identitaria nasce dalla conoscenza storica del passato che appartiene a
un individuo in quanto membro di una collettività» risponde Hamid: «Il
legame, nel mio caso, fra Eritrea e Italia è la ferita storica del
passato coloniale. Non esiste un colonialismo buono: l’esperienza
coloniale è il dominio di un popolo su un altro, mentre il percorso
migratorio dell’uomo nella storia è naturale. Gli italiani devono
ricordare che alla fine dell’Ottocento scappavano dalla propria terra
per sfuggire da miseria e malattie. Nello stesso periodo il giovane
regno d’Italia muoveva i primi passi imperialisti in Africa Orientale:
veri e propri sistemi di apartheid, schiavismo, reclutamento di soldati
eritrei nell’esercito coloniale sono elementi che ricorrono fino agli
anni quaranta. Tutto questo fa parte della storia dell’Italia e
dell’Eritrea. È un pezzo della storia comune, al di là che sia buona
o cattiva abbiamo il dovere di ricordarla». Si
inserisce Daniele: «Condivido in pieno il discorso di Hamid. Il
colonialismo resta uno dei grandi e più pericolosi rimossi della nostra
storia. Nonostante il coraggio di Del Boca e di altri storici a scuola
come nella maggior parte delle memorie “domestiche” si
ignorano quegli orrori… Altro che “italiani brava gente”». Cosa
spinge un africano a migrare e cosa invece porta un italiano a
restare qui? «L’Africa
a differenza dell’Europa è piena di risorse. Ma noi siamo costretti a
venire nei Paesi europei; che sono ricchi perché hanno rubato le
risorse dalla terre africana: petrolio, uranio e diamanti, tanto per
dire. Gruppi di potere occidentali costruiscono conflitti etnici a
tavolino e i cittadini africani, stremati, ne divengono vittime senza la
forza di ribellarsi a chi li rapina» spiega Hamid: «Il centro dello
sfruttamento economico – sia delle risorse materiali che di quelle
umane - sono l’Europa e gli Stati Uniti». «L’inarrestabile
saccheggio delle risorse e ingiustizie mostruose nel cosiddetto Terzo
mondo; egoismi e paure nel mondo ricco. E sempre più guerre. Questo è
il triste quadro di oggi» aggiunge Daniele: «quando si prova a dire
che queste nostre democrazie occidentali sono un imbroglio in molti
scatta una reazione dura: “sei un estremista” mi dicono. No, è la
situazione che sta tornando a essere estrema ovunque: con i ricchi che
si arricchiscono sempre più e i poveri che si impoveriscono oltre ogni
limite. Un capitalismo feudale. Perché gli italiani restano qui? Alcuni
per pigrizia o per comodo, altri per paura costruiscono muri persino nel
loro giardino ma c’è anche chi vuole cambiare questo ordine ingiusto
e confida che in Occidente prevalga un modello di sviluppo equo e
disarmato. E’ possibile ridistribuire in modo equo la grande ricchezza
sociale del nostro pianeta. Bisogna volerlo e costruire strategie di
lotta». Cos’è
la sicurezza e soprattutto di chi e rispetto a cosa? «Il
sistema attuale garantisce la sicurezza solo a coloro che hanno
accumulato ricchezza. Mentre un tempo nelle città italiane il centro
era territorio dei ricchi e la periferia ghetto dei poveri oggi la
situazione si sta rovesciando» riflette Hamid: «Nelle periferie
sorgono ville dove i ricchi riparano la propria vita dall’incontro con
la differenza, nelle metropoli finiscono i disgraziati. L’ansia della
sicurezza in Europa nasce dal non sapere cosa davvero sta accadendo e
dal vedere facce sconosciute. Sulla diversità si riversano paure,
timori e le colpe o le incertezze della propria identità. Poi girano
tante menzogne rassicuranti: ma prima dell’arrivo degli immigrati
l’Italia non era certo un Paese delle meraviglie». «La
parola più usata è sicurezza: ma perché finisce sempre in compagnia
di reati e non viene mai associata al lavoro, al reddito,
all’alloggio?» polemizza Daniele: «Noi siamo esseri complessi,
sempre divisi fra paure e desideri. Se prevale il timore o la curiosità
dipende dalle esperienze, dai contesti e dalle epoche storiche. Oggi gli
imprenditori politici della paura in Occidente speculano sul terrore che
loro stessi seminano. E’ un discorso estremamente complesso…». Cos’è
il razzismo oggi, nella vita di tutti i giorni nelle città italiane? «Il
razzismo nasce dalla paura e si manifesta con l’intolleranza e la non
accettazione. È importante chiedersi: chi tollera chi e chi accetta
chi? Molte persone affittano alloggi non abitabili a extra-comunitari
come se fossero extra terrestri, non umani. Altri ne spremono il lavoro.
Non c’è tolleranza, ma sfruttamento dei bisogni» è il ragionamento
di Hamid: «Durante la schiavitù si guardava in bocca agli africani,
oggi si guarda quante ore lavorano al giorno e quanti certificati di
malattia mandano». Daniele
concorda: «Dice bene Hamid. Ma proprio perché il razzismo è subdolo
noi abbiamo provato con le “Scimmie verdi” a smontarne alcuni
meccanismi e soprattutto a usare le parole di ogni giorno, quelle più
vere anche se spesso rozze e imprecise, di persone che spesso non sanno
di essere razziste». Nella
vita quotidiana “scambiarsi i panni” può essere un esercizio utile
per la comprensione reciproca. Quando e come si può favorire questo
scambio o performance? «Prima
di tutto occorre possedere gli strumenti informativi e formativi. La
logica dell’Io faccio per Te deve essere sostituita con Io faccio con
Te. Solo in questo modo il confronto diventa fra persone: sano, alla
pari e costruttivo» sintetizza Hamid. «Ribadisco
l’idea di Hamid, rubando una frase a Gandhi: “se fai qualcosa per me
senza di me allora sei contro di me”. Scambiarsi i panni potrebbe
aiutare tutti a capire i veri problemi» conclude Daniele: «In
teatro come facciamo noi può essere facile. Certo all’Onu o
nell’economia globale è assai più difficile, visti i rapporti di
forza che ci sono…». |